Allocuzione ai festeggiamenti del 1° agosto

Allocuzione ai festeggiamenti del 1° agosto

Gentili Signore,
egregi Signori,
cari bambini,
cari amici della Capriasca e paesi limitrofi.

Una delle frasi più citate dal ‘900 ad oggi è: “I have a dream”, “Io ho un sogno”, espressione contenuta nel celebre discorso che il pastore protestante Martin Luther King pronunciò il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington in occasione della marcia per i diritti civili.

Il soggetto della frase non lascia dubbi: “Io”, cioè la persona che sono, con la mia storia – che dà senso al mio essere – al mio esistere, con i miei difetti ma anche con i miei punti forti, la mia capacità di andare avanti malgrado tutto e tutti. Andare avanti, vivendo intensamente e profondamente perché a sopravvivere sono buoni solo i mediocri. Andare avanti a testa alta anche se, con il passare degli anni, la salute diventa più fragile, il corpo si trasforma, le facoltà intellettive diminuiscono. Andare avanti anche se la vita stessa che, per antonomasia è opposta alla morte, ci priva delle persone che amiamo, genitori, figli, amici.

Io”: con la speranza che ho nel cuore, con il mio bisogno di sentirmi sicuro nel Paese nel quale vivo e di essere in pace con gli uomini e le donne che insieme a me esistono e lottano per i propri valori e quelli comunitari. La speranza che rimane sul fondo del vaso di Pandora, dopo che tutti i mali del mondo continuano a ferire la vita di uomini e donne e bambini provati talvolta oltre misura, e non raramente messi alla prova dalla cecità, ottusità ed egoismo di pochi che, messi al posto sbagliato, opprimono e assoggettano i loro simili ad umiliazioni ed angherie; è solo la speranza a rimanere sicut lux in tenebris, come una luce nella notte.

Io”: che posso liberamente manifestare il mio pensiero, professare il mio credo politico, religioso, ideologico. In un contesto socio-politico-culturale di origine storicamente cristiano, abbiamo voluto mettere sulla nostra bandiera una croce, non un “più” ma una croce, sullo sfondo rosso sangue, a memoria di coloro che con il sacrificio di loro stessi ci hanno regalato libertà, democrazia e coesione nazionale pur nella diversità dei Cantoni, delle lingue e del credo religioso. A questo colore, che indica il valore assoluto della cittadinanza per un Paese libero, noi tutti dovremmo provare un senso di profonda gratitudine e riconoscenza. Paese di origine cristiana ma che non teme il confronto con le sfide della modernità, dove il movimento delle persone è molto superiore rispetto al passato, e con le persone viaggiano le culture, le religioni, le lingue, i colori della pelle. A noi di conservare le nostre origini e la nostra identità, pur nella libertà del pensiero di ciascuno e di tutti, senza dimenticare che la Costituzione Federale inizia: “Nel nome di Dio Onnipotente”.

Io”: che posso muovermi liberamente dentro e fuori i confini statali perché interiormente e socialmente libero. La libertà è come la salute: se ne apprezza il senso solo dopo averla perduta. Tra i passaporti più rispettati al mondo, vi è il nostro e, dove c’è un nostro connazionale nel mondo, là vi siamo tutti noi. Dice infatti il motto iscritto all’interno della cupola di Palazzo Federale: “Unus pro omnibus, omnibus pro uno”, “Uno per tutti, tutti per uno”.

Io” che sono considerato una persona, con un nome, con un passato, un presente e con un futuro che mi auguro lontano da conflitti bellici, fame, malattie e fanatismi di ogni genere. Quella speranza che vuole essere superiore ad ogni avversità e finitudine umana e che, da cristiano quale sono, ritrovo splendidamente riassunto e scritto sul profilo della moneta da 5 franchi: “Dominus providebit”, “Dio provvederà”. Sì, Lui provvederà ma solo con il nostro aiuto e per nostro mezzo, come indicato al mondo intero dall’esile ed apparente invisibile persona di Madre Teresa di Calcutta, affermando che: “Dio non ha altre mani che le nostre.”. E’ finito il tempo dei miracoli evangelici, ora tocca a noi ridare dignità e rivestire di bellezza gli uomini e le donne del nostro tempo.

Il verbo che troviamo nella frase di Martin Luther King è “avere”, declinato nella prima persona singolare, io ho.

Ho”: esso non esprime un senso di possesso dispotico e totalitario ma di legittima appartenenza a qualcosa, a qualcuno. La sicurezza di possedere un documento d’identità che dica al mondo chi sono e da dove vengo. Il possesso di un’identità che in certi Paesi del mondo non è data di possedere. Sembra un paradosso: nel Paese dove vivi, non sei nessuno, semplicemente non esisti.

Ho” qualcuno che amo, “ho” un amico, “ho” un’amica, “ho” un animale domestico che mi tiene compagnia; questo verbo esprime la forza di un legame affettivo e relazionale che mi faccia dire che esisto nella misura in cui esisti tu. Nascono così i sentimenti più nobili dell’essere umano: l’amore, la stima reciproca, l’amicizia, il perdono, l’empatia di guardare il mondo con gli stessi occhi dell’altro, così pure la compassione, con quella dolce etimologia latina del “cum patire”, il soffrire accanto, con e per l’altro.

Ho”: dovrebbe indicare (purtroppo il condizionale è d’obbligo) la garanzia di un lavoro, di una famiglia che mi vuole bene, una famiglia vera, non quella dei telefilm americani dove tutti sono ricchi, con i denti sbiancati, sguardi sorridenti, apparentemente privi di quei problemi che invece attanagliano la vita delle persone normali come noi.

Ho”: riconoscere che rispetto ad altre Nazioni, milioni di persone come noi, ma nati dalla parte sbagliata del mondo, abbiamo molto di più di quanto ci sarebbe realmente necessario per vivere decorosamente eppure, per la grandiosità del nostro essere uomini e donne liberi e generosi, non manchiamo mai all’appello delle urgenze e drammi umanitari dentro e fuori il nostro Paese. Coloro che ci hanno preceduti nella storia, i nostri antenati, poveri ma onesti, ci richiamano dal passato con la loro vita fatta di cose semplici, di contadini, operai e di emigranti, al senso della corresponsabilità e della fratellanza universale, che scavalca bellamente ogni colore di pelle, di appartenenza politica e di credo perché uomini in un mondo di uomini.

Infine, Martin Luther King ci parla di “un sogno”: perché sognare non è proibito.

Un sogno” che ogni tanto ci faccia volare in alto, liberi da ogni stereotipo, liberi anche da un perbenismo che, al suo estremo, diventa ipocrita ed ingombrante.

Un sogno” che permetta forme d’amore falsamente definite “moderne” perché sempre esistite ma da sempre represse, stigmatizzate e condannate, anche dalla Chiesa stessa. L’amore è come un diamante, brilla nella misura in cui ha più sfaccettature, altrimenti è un vetro di una finestra. Prima di giudicare su come gli altri si amano tra loro, verifichiamo che il nostro cuore sia ancora vivo e funzionante, perché creato appositamente per amare. Chiediamoci con quale intensità noi amiamo noi stessi e le persone a noi vicine, prima di guardare sotto le lenzuola di persone realmente felici ed appagate da una vita ricca di senso.

Un sogno” dove uomini e donne si sentano individualmente e comunitariamente liberi.

I have a dream, “Io ho un sogno” e questo sogno si chiama Svizzera!

Padre Michele Ravetta
Guardiano del Convento di S. Maria dei Frati Cappuccini del Bigorio